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  • Immagine del redattoreBRAIN UNIBO

Una precaria e ostinata ricerca tra formazione, mercato e Recovery Plan

La didattica è stata al centro dell’attenzione in questi mesi pandemici. Si é invece parlato molto poco della ricerca, delle condizioni materiali di chi la fa e ha dovuto svolgerla affrontando gli ostacoli determinati dall’emergenza, del rapporto tra ricerca e didattica, dei possibili scenari che ci attendono ora che R&S, ricerca e sviluppo, sono diventati obiettivi strategici per l’utilizzo dei fondi di ricostruzione europei. Si tratta invece di questioni che vanno portate al centro del dibattito e richiedono con urgenza una presa di posizione.





Con l’eccezione della possibilità di prorogare di pochi mesi il termine della ricerca – che per ora riguarda una parte minima di dottorande e dottorandi e, soprattutto nel caso di assegniste e assegnisti, non prevede alcuna continuità salariale – l’impatto della pandemia sulla ricerca non e stato affrontato dall’Ateneo in modo coordinato e sistematico ma al contrario, nella maggior parte dei casi, come un problema contingente a carico dei singoli operatori e operatrici della ricerca. Mentre per le scienze dure molti laboratori sono stati riorganizzati per garantire la continuità dei progetti, dottorandi, assegnisti e ricercatori si sono trovati a dover gestire individualmente gli effetti dell’inaccessibilità di biblioteche, archivi e fon-di e il blocco della mobilità. Tutto ciò si è verificato in una situazione in cui l’imperativo della produttività scientifica ha continuato a farsi valere con la stessa intensità. Questa individualizzazione non è una novità: è l’esperienza di chi in maniera continuativa, almeno a parti-re dalla fine del dottorato, deve conquistarsi il proprio futuro nella ricerca attraverso la «caccia ai bandi», con un’attività di progettazione tanto invisibile e priva di riconoscimento, quanto indispensabile non solo per i singoli, ma anche per gli atenei ai quali quei singoli fanno riferimento.

La ricerca è integrata nel mercato perché la competizione individuale è il canale prioritario di accesso alle risorse; perché sempre di più i privati ‒ imprese, oppure fondazioni ‒ entrano nell’università nella funzione di committenti; infine, perché l’offerta progettuale deve corrispondere a una specifica domanda sempre più orientata da criteri di «efficienza e impatto tecnologico ed economico». Su questo sono molto chiare le linee guida indicate dal governo italiano nel suo Recovery Plan, che danno un’idea di come l’emergenza pandemica di fatto investirà nel medio e lungo periodo l’università, accelerando una trasformazione in atto da tempo. I fondi per la ricerca -e dunque anche per il reclutamento universitario -sa-ranno aumentati nel prossimo quinquennio, è vero. La loro destinazione, tuttavia, è già scritta all’interno di linee guida e «missioni» ‒ le stesse tratteggiate dal piano europeo Horizon 2020 e ora in via di ridefinizione alla luce delle esigenze della società pandemica ‒ che non lasciano spazio all’autonomia della ricerca o alla cooperazione, e che riorganizzeranno la precarietà delle carriere accademiche dentro a specifici parametri di prestazione. La ricerca non può definire i propri scopi. La ricerca è orientata da scopi già definiti, da obiettivi di ‘applicazione’ –tecnologica, produttiva, di governo ‒ che omologano l’attività di chi la svolge alle funzioni richieste dai «risultati attesi» e rendono ricercatrici e ricercatori figure equi-valenti e sostituibili.

Tutto questo non può essere separato dalle condizioni di chi svolge la ricerca e la didattica, quindi dalla considerazione dei processi formativi e dell’università come fabbrica sociale. L’annuncio ‒ contenuto nel Recovery Plan italiano ‒ di una professionalizzazione delle lauree triennali e di una specializzazione di magi-strali e dottorati in funzione di impresa e pubblica amministrazione va nella direzione di una ricerca omologata e funzionale alle esigenze della produzione, al mercato e ai loro apparati di servizio. Nel frattempo, le misure pandemiche rivelano la tensione verso un insegnamento che, come la ricerca, deve essere standardizzato, e che può essere innovativo soltanto entro i binari prescritti. L’altra faccia della passione per le lezioni preregistrate ‒ che Unibo ha dimostrato adottando in tempi rapidissimi una piattaforma destinata allo scopo ‒ sembra essere il decreto (giustificato come misura di emergenza, ma che in realtà con-ferma una direzione già presente da qualche anno)approvato dall’Ateneo per estendere il numero di ore di insegnamento e supporto alla didattica che possono svolgere ‒ gratuitamente o in cambio di un compenso ‒ i titolari e le titolari di borse di dottorato o assegni di ricerca, fino a pochi anni fa del tutto dispensati, almeno formalmente, da ogni attività di insegna-mento. Per loro, questa didattica precaria può diventare l’unico modo per stringere i legami con un’istituzione che minaccia sempre di espellerli, data la precarietà delle carriere. Per Unibo, operatrici e operatori della ricerca diventano il bacino al quale attingere per supplire alle esigenze della didattica a distanza o per erogare lezioni come «ripetitori», un termine utilizzato nelle discussioni sulla possibilità di «duplicare» i corsi per svolgere in sicurezza le lezioni in presenza.

Sono trasformazioni accelerate, che senz’altro avranno effetti di lungo periodo e che pensiamo debbano essere discusse in uno spazio collettivo e in maniera trasversale alle figure che svolgono la ricerca e sono investite dal suo rapporto con la didattica, anche nella prospettiva di estendere maggiormente il coinvolgi-mento delle scienze dure e sperimentali, non solo umane e sociali. La discussione svolta fin qui ha indicato questioni per noi dirimenti: la risposta agli effetti presenti e di lungo periodo della pandemia sui progetti di ricerca in corso non può essere affidata agli sforzi individuali, ma deve essere strutturata e sistematica. La garanzia di accesso alle risorse, alle fonti, agli archivi di ricerca è una questione che non può essere più rimandata, sapendo che la digitalizzazione è una soluzione solo parziale e che peraltro rischia sempre di essere sottoposta alle logiche di mercato, come quelle che oggi rendono possibile l’accesso alle banche dati solo a pagamento. I programmi di valutazione sono per il momento sospesi, ma bisognerà intervenire con determinazione quando le prestazioni di ricerca torneranno a essere centrali per l’accesso ai fondi, implicando peraltro carichi di lavoro sempre più intensi visto l’impegno lavorativo richiesto dalla didattica online. Dovremo salvaguardare la dimensione cooperati-va della ricerca e della produzione del sapere sociale di fronte a processi che esasperano competizione, individualizzazione e omologazione al mercato. Dovremo stabilire un diverso rapporto tra formazione e ricerca, ora che l’Università non solo si dota di molteplici piattaforme, ma si presenta come l’unica piattaforma capace di connetterle, di stabilire univoca-mente il loro rapporto e la loro direzione.

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