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  • Immagine del redattoreBRAIN UNIBO

Ricerca: reclamare innovazione




La parola chiave della ricostruzione post-pandemica – che è già cominciata, anche se la pandemia è tutt’altro che passata ‒ è innovazione. Lo ha reso molto chiaro il ministro della Transizione ecologica Cingolani che, in un suo recente intervento a sostegno del «dottorato industriale», si è spinto ad affermare la necessità di una trasformazione antropologica e culturale capace di sostenerla. Discutere di ricerca significa perciò discutere della società che il Recovery and Resilience Plan (RRP) sta progettando e dei suoi individui al lavoro. Di innovatori e innovatrici che tali sono perché capaci di procacciare risorse, di produrre risultati applicabili e profittevoli e convivere con una precarietà che sempre più diventa la condizione di possibilità della competizione innovativa.

L’Europa è l’orizzonte inaggirabile. Non soltanto perché europei sono i finanziamenti alla ricerca previsti dal RRP, ma anche e soprattutto perché Horizon Europe traccia la direzione della ricerca al punto da stabilire in maniera diretta o indiretta anche i criteri di assegnazione dei fondi nazionali destinati a quella di base, così come i criteri di valutazione dei corsi di dottorato e delle performance individuali di docenti, ricercatrici e ricercatori da cui dipende l’assegnazione dei finanziamenti. La ricerca diventa una professione ma questo ha poco a che fare con la pratica della scienza. Si tratta piuttosto di una professionalizzazione imprenditoriale piegata alla ricerca di fondi, allo scouting, alla creazione di figure tecnico-gestionali nella quale verranno presumibilmente ‘parcheggiati’ precarie e precari della ricerca in attesa di un futuro migliore e sempre troppo al di là dell’orizzonte. Figure che, mentre forniscono supporto ai procacciatori di risorse, sono chiamate a garantire la collocazione adeguata del progetto scientifico alle richieste pre-scritte dai piani di finanziamento. In nome dell’innovazione si rende impossibile ogni innovazione.

Non a caso, i progetti europei hanno rinforzato quella che viene definita Technology Readiness Level nei diversi cluster di Horizon Europe, ovvero il livello di “traducibilità operativa” degli esiti della ricerca; quest’ultima assume sempre più le sembianze di un’inchiesta intorno alle risposte possibili di quesiti già posti all’interno delle cosiddette destinations europee. Questi quesiti riflettono i bisogni che in primo luogo la produzione industriale europea, presentata come un settore di ricerca, richiede per effettuare quella transizione che la società pandemica e, in prospettiva, quella post-pandemica reputa necessaria. È a questa transizione che è destinata la maggior parte dei fondi europei per la ricerca e in essa va inquadra la riconversione ecologica, cui il neonato governo italiano ha addirittura assegnato un ministero ad hoc. Mentre indirizzano la ricerca dei settori strategici competenti, questi parametri stabiliscono delle gerarchie tra saperi e discipline secondo un criterio di spendibilità nella nuova riconfigurazione dei rapporti sociali fissata dall’orizzonte europeo. I clusters di ricerca sono sempre più spesso dei think tanks per risolvere problemi specifici mentre la loro connessione (legittimata con il ricorso al valore dell’interdisciplinarietà) si dà nella forma di cordate. Al loro interno, le scienze umane e sociali sono messe al servizio della promozione delle innovazioni da estendere al resto della società. L’università-piattaforma si posiziona all’interno di una trama sempre più fitta di scambi e collaborazioni che rendono appetibili certi atenei a scapito di altri; allo stesso tempo, queste cordate sono l’unico strumento a disposizione per aumentare le chances di vittoria nella competizione per i fondi disponibili. L’ormai decennale svuotamento dei fondi ordinari (Ffo) piega la ricerca all’imperativo del lavoro su commissione, spesso di breve durata. I piani di reclutamento strutturale finiscono per essere un residuo, o in tutti i casi l’impossibile traguardo di una competizione che si gioca sempre meno sulla qualità della ricerca e sempre più sulla capacità di competere efficacemente nel mercato finanziario regolato dalle destinations europee.

Per chi fa ricerca, innovazione e resilienza sono due facce della stessa medaglia. Ma, a ben vedere, non sono due facce così gradevoli. Se resilienza significa adattabilità di fronte alla crisi, presente e futura, essa non può essere un attributo della società – e quindi garantire la sua riproduzione anche in una situazione critica ‒ se non viene assimilata da ciascun individuo: essere resilienti e flessibili, disposti ad accettare la precarietà come rischio ineluttabile in un percorso di valorizzazione del proprio capitale umano è l’unico criterio in grado di garantire qualche possibilità di successo nel mercato del lavoro accademico e non. Il mandato della resilienza comporta da un lato una continua disponibilità a rimodulare i propri interessi a seconda del quesito posto dall’istituzione che di volta in volta eroga i fondi, dall’altro si traduce in una richiesta di acquisizione di competenze tecniche indispensabili per muoversi nella redazione di progetti “appetibili”. Osservata sotto queste lenti, l’innovazione declamata come fine ambito e valore sociale della ricerca universitaria costituisce piuttosto un elemento di stabilizzazione e governo delle trasformazioni in corso. Senza tradursi in un’eventuale innovazione sociale, l’innovazione richiesta è principalmente un continuo adeguamento di sé, del proprio capitale umano, da compiere a proprie spese.

Se per i docenti la corsa ai finanziamenti diventa una professione imprenditoriale ormai inaggirabile, se per chi vive di assegni e contratti brevi è un percorso a ostacoli tra bandi, scadenze e necessità di innovarsi continuamente, per i dottorandi e le dottorande che ambiscono a continuare il proprio percorso accademico l’orizzonte europeo della ricerca non è allora dei più rosei. In questi mesi le proroghe di assegni e borse di dottorato, parzialmente concesse e ancora oggetto di negoziazione, sono state l’unica risposta accordata dal governo e dalle università a fronte di una condizione in cui per molti e molte è stato difficile portare avanti il proprio lavoro. Ben poca cosa a fronte di processi di “riforma” del dottorato che, da tempo in cantiere, sembrano puntare ora verso quello sbocco “industriale” annunciato dal ministro Cingolani. Il dottorato industriale altro non è che la massima espressione di quella logica operativa che deve guidare il sapere “resiliente” e “innovativo”. Prodotti invece che pubblicazioni, ritmo industriale come tempo del sapere, incorporazione di quest’ultimo nella catena stessa della produzione per accorciare il tempo di rotazione del capitale culturale. Se questo è l’orizzonte verso cui tende il dottorato di ricerca, è chiaro che in vista non c’è solo un’intensificazione della gerarchia tra saperi umanistici e “tecnico-scientifici”, ma una distinzione tra dottorati volti a sostituire una forza lavoro universitaria sempre più dequalificata a erogatrice di didattica – con un’ulteriore distinzione tra chi erogherà questa didattica in presenza e chi in remoto – e dottorati che sfornano “innovatori” da mettere al servizio della società. Siate resilienti o sparite: ecco la “linea di ricerca” preferita dal Recovery Plan e dai governanti che devono implementarlo.

Come Brain pensiamo che in nessun modo la difficoltà contingente e strutturale di accedere a risorse, fonti, laboratori e mobilità all’estero debba ricadere sulle spalle di chi le affronta, diventando la prova o lo sfoggio di una meritevole resilienza e autoimprenditorialità. Pensiamo che la proroga dei dottorati e degli assegni di ricerca non possa essere lasciata alla scelta dei Dipartimenti o dei Collegi dei docenti, perché rischia di finire sotto lo scacco della valutazione che penalizza i corsi di dottorato che più ne concedono, venendo per questo disincentivata e scoraggiata. La proroga retribuita per chiunque ne abbia bisogno è dunque una misura necessaria e, tuttavia, insufficiente: va contrastata la direzione industriale del dottorato che ne fa una «zona franca» di precarietà competitiva. Pensiamo che le competenze e le infrastrutture messe a disposizione dell’Università debbano creare le condizioni non per realizzare, ma per forzare l’orizzonte europeo, liberando la progettazione scientifica e il tempo di chi la pratica dalle missioni finanziarie e gestionali. Pensiamo che l’innovazione debba essere reclamata contro una politica della scienza che costringe la ricerca nei confini angusti di destinazioni prescritte e delle loro finalità applicative, schiacciando la cooperazione tra chi fa ricerca e tra le discipline in competizione individualizzata o in cordate strategiche di scalata ai fondi.

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