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Immagine del redattoreBRAIN UNIBO

Didattica: reclamare ricchezza


Al di là di qualsiasi giustificazione e necessità emergenziale, la Didattica a distanza ha fatto il suo ingresso a regime nell’Università. È un pezzo del suo futuro già presente, e il presente si configura come un grande esperimento su scala reale della sua praticabilità e applicazione generalizzata. Generalizzata, come le disuguaglianze che la rendono inevitabile. La DAD è qualcosa che vorremmo rifiutare, ma non possiamo non volere. L’aumento delle immatricolazioni, già nel 2020-2021 e ulteriormente previsto per il prossimo anno accademico, è il segno che la DAD permette di seguire le lezioni e ottenere un’istruzione universitaria anche a chi lavora, a donne che vi trovano la possibilità di continuare gli studi accanto alla maternità, oppure a chi non si sarebbe mai potuto permettere un’esperienza da fuorisede a Bologna. E questo vale anche per chi, fino all’esplosione della pandemia, ha potuto farlo beneficiando di una borsa di studio, oppure lavorando, oppure grazie al sostegno di genitori che poi la pandemia ha gettato in povertà. La DAD resta l’unica risorsa per superare il blocco della mobilità fra territori, ed è il mezzo più adeguato per compensare in qualche misura il blocco della mobilità sociale che la crisi economica determinata dalla pandemia sta acuendo. La DAD è un meccanismo di distanziamento capace di accorciare le distanze. Per questo è già diventata parte della progettazione accademica a tutti i livelli. Si discute delle percentuali massime di didattica a distanza previste per l’accreditamento dei corsi di laurea, addirittura della possibilità di istituire corsi di laurea interamente erogati a distanza; si discute dell’occasione che la DAD offre in termini di ‘reale’ internazionalizzazione – rigorosamente stanziale, e dunque in definitiva virtuale ‒ dei corsi di studio; e si discute di come riprogettare la didattica per adeguarla al mezzo, di come adattare il contenuto alla tecnologia della sua comunicazione. Invece di ampliare immediatamente l’accesso a borse di studio per chi ha subito gli effetti sociali della pandemia, Unibo sta prospettando la DAD come formula permanente di un’istruzione impoverita. E tuttavia, proprio per questo, non bisogna rifiutare la DAD, ma reclamare un’istruzione ricca.

In questi mesi si sono moltiplicati seminari, corsi di formazione destinati alle docenti e ai docenti ‒ su base squisitamente volontaria ‒, ‘istruzioni per l’uso’. La DAD è stata per Unibo l’occasione per accelerare il suo grande progetto della «didattica innovativa», attivo da anni ma finora – per fortuna – di poco successo. Le video-pillole disponibili sul portale di Ateneo spiegano come impacchettare la conoscenza, formulare «test» di verifica dell’apprendimento durante la lezione, disporre studentesse e studenti in gruppi perché chi ha meglio acquisito i concetti ricevuti possa trasmetterli agli altri in un rapporto definito tra «pari», ma che inevitabilmente risente delle differenze di capitale tecnico, culturale e sociale che ciascuno nasconde dietro allo schermo. La ‘percezione soggettiva’ del peso della DAD da parte di studentesse e studenti si traduce nell’indicazione della ‘riduzione’ o ‘alleggerimento’ dei contenuti dell’ora didattica, sicché questa può essere impoverita. Eppure, a studentesse e studenti non si è concesso alcuno sconto sui CFU necessari per beneficiare delle borse di studio, nonostante la pandemia abbia ampiamente aumentato la difficoltà di maturarli. La piattaforma didattica non è un fatto soltanto tecnico, ma tecnologico. L’innovazione che viene prodotta è quella che va nella direzione di una omologazione verso il basso dell’istruzione almeno per chi della distanza si dovrà accontentare perché non ha i mezzi per ridurla.

Anche su questo terreno, il Recovery Plan stabilisce un orizzonte. L’incentivazione che fin qui è stata tratteggiata dei corsi di studio professionalizzanti va nella direzione di una standardizzazione della conoscenza da erogare e da acquisire, coerentemente con una logistica del sapere indirizzato ‘to the point’. Non è una grande novità, ma il compimento di una concezione già ampiamente sdoganata di studentesse e studenti come ‘semilavorati’ da preparare per il mercato del lavoro e adeguare alle sue esigenze, riducendo ampiamente la ricchezza del sapere di cui possono disporre per muoversi tra le sue maglie con una pretesa di autonomia. Per quelli che sul mercato del lavoro già ci sono, che si iscrivono all’università con una speranza di autovalorizzazione e l’ambizione a migliorare almeno in parte la propria condizione di vita, nel migliore dei casi c’è «Panopto»: la piattaforma dall’inquietante nome carcerario sulla quale le docenti e i docenti dovrebbero pubblicare lezioni preregistrate, un ‘podcast’ che studentesse e studenti lavoratori dovrebbero poi ‘consumare’ in rigoroso isolamento. Questa è la base di una piramide che al vertice avrà gli «innovatori» che, secondo il ministro Cingolani, l’Università dovrebbe produrre, figure dell’eccellenza che possono essere tali perché hanno i mezzi per garantirsi la didattica in presenza preclusa ai più, così come affrontare a proprie spese la precarietà strutturalmente prevista dalla competizione che l’eccellenza richiede. Il mercato universitario riproduce le disuguaglianze che sono ben radicate nella società e non le appiana minimamente, come vorrebbe farci credere la retorica dell’inclusività che l’Università di Bologna ha usato in questi mesi per giustificare il ricorso alla DAD. Qui non c’è nessuna innovazione, a meno di non voler confondere il termine con l’introduzione delle piattaforme digitali nell’insegnamento. Al contrario, si conferma l’architettura gerarchica che distingue tra una formazione ricca, fruibile da chi ha i mezzi per potersi permettere di essere un’eccellenza, e una formazione povera, per chi parte da una posizione di svantaggio e dovrebbe farsi da sé.

La DAD offre all’Università una nuova fetta di mercato, e quindi una nuova occasione di profitto, che può essere colta solo intensificando il lavoro delle e dei docenti, strutturati o a contratto, senza modificarne minimamente le condizioni materiali ed economiche. Sono state reclutate centinaia di tutor per supportare i docenti nell’uso delle piattaforme e garantire lo svolgimento sicuro della didattica mista. Non ci sono invece risposte al problema – per niente nuovo – del rapporto sproporzionato tra docenti e studenti che ha reso strutturale il ricorso ai docenti a contratto, permanentemente precari pur essendo essenziali. Tutto questo non ha comportato solo l’aumento dei carichi didattici a parità di salario ‒ ancor più significativo in quei corsi che prevedono laboratori o tirocini in presenza e quindi una moltiplicazione dei turni per il personale responsabile ‒ ma è parte di un processo di svuotamento dell’insegnamento, costretto a diventare meccanico come la piattaforma sulla quale è erogato e quindi sempre più standardizzato, che è necessario contrastare.

Come BRAIN pensiamo sia urgente intervenire su tutte quelle condizioni che obbligano studentesse e studenti alla didattica a distanza perché non hanno i mezzi per pagarsi quella in presenza. Pensiamo che una SIM da 100GB non basta: a chi paga le tasse per fruire solo della didattica a distanza devono essere garantite connessioni e supporti tecnologici adeguati, a chi sceglierà comunque la presenza un ammontare straordinario di borse di studio che consentano di superare il blocco della povertà. Pensiamo che se la DAD deve diventare parte integrante dell’insegnamento, allora i servizi necessari allo studio devono essere a loro volta deterritorializzati: l’Ateneo deve farsi carico di sostenere l’accesso ad aule studio e servizi bibliotecari – anche digitalizzati – per ogni studente. Pensiamo che vadano interamente riconsiderati i carichi didattici e sistematicamente programmato un aumento del corpo docente, senza che ciò comporti un aumento della precarietà: non solo per ridimensionare i carichi di lavoro, ma per consentire a ciascuna e ciascuno di offrire una didattica di qualità, che mantenga un rapporto stretto con la ricerca. Innovativa è la didattica che permette a studentesse e studenti di emanciparsi da quella condizione di ‘merci povere’ che l’università ora produce. Ricca è la didattica che permette di combattere la disuguaglianza.

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