Siamo docenti, ricercatrici e ricercatori, dottorande, assegnisti, tutor, studentesse e studenti. Siamo il corpo vivo indispensabile a far funzionare l’università come luogo di costruzione e trasmissione di conoscenza e sapere e per questo prendiamo posizione sulle trasformazioni che la stanno investendo. Queste trasformazioni – che ci sono state imposte in maniera unilaterale dalla governance universitaria e sono state legittimate dalla retorica dell’emergenza ‒ graveranno a lungo sulla nostra vita, sul nostro modo di insegnare, studiare, fare ricerca, lavorare. Per questo abbiamo deciso di mobilitarci e invitiamo tutte e tutti coloro che si sentono coinvolti a farlo.
La digitalizzazione della vita universitaria, che ha cambiato radicalmente le nostre condizioni di lavoro, di studio e di vita, è stata resa necessaria dall’emergenza, ma è parte di un progetto di lungo periodo promosso con le parole chiave di “inclusione” e “innovazione”. Noi sappiamo che l’inclusione garantita dalle piattaforme digitali si paga con un bruciante aumento delle gerarchie sociali, perché la loro accessibilità dipende dalle condizioni materiali di vita di studentesse e studenti. Vediamo che l’innovazione didattica coincide con una riduzione della conoscenza a competenza e dell’esperienza formativa a mera trasmissione di informazioni. I privati sono sempre più protagonisti, secondo il programma governativo di spesa dei fondi europei di recupero, della definizione di piani di insegnamento e ricerca. Lo studio e la formazione sono sempre più passaggi di costruzione del capitale umano e di mero acquisto di competenze per il mercato del lavoro. La ricerca è sempre più un lavoro a commissione, in cui la precarietà è la condizione ordinariamente imposta dalle logiche dell’efficienza e dai regimi di valutazione delle performance.
Queste non sono novità, ma l’emergenza ha segnato un salto in avanti verso un modello di università-piattaforma in cui i singoli momenti della produzione del sapere, della formazione, della ricerca e della didattica sono frammentati e ricomposti sotto un comando la cui direzione sembra impossibile invertire e determinare. L’incremento dei ritmi di lavoro e della precarietà, così come la sconnessione tra ricerca e didattica, sono parte di questo processo. È perciò necessaria una presa di posizione ampia e trasversale per avere un peso decisivo contro l’affermazione di questo modello.
Non saremo disponibili a mantenere le attuali condizioni di lavoro e di studio una volta finita la pandemia. Già oggi emergono con forza contraddizioni che travolgono i soggetti che, in varie forme, costituiscono il cuore pulsante dell’Università. A partire da Bologna, reclamiamo quindi con urgenza provvedimenti che invertano da subito la corsa verso l’università-piattaforma.
— ridiscutere i parametri ISEE, ora in gran parte legati allo stato economico del 2018 che non contempla gli effetti sociali della pandemia sui redditi familiari. Cancellare adesso – e riconsiderare per il futuro – i livelli di CFU necessari per mantenere borse di studio, alloggi e permessi di soggiorno, anche in considerazione delle difficoltà di accesso alla didattica, ai materiali e agli spazi incontrate da studentesse e studenti negli ultimi mesi;
— estendere a tutti i dottorati e assegni di ricerca in corso la proroga delle scadenze, garantendo continuità salariale, fino alla fine della crisi: non è possibile lasciare singoli ricercatori e ricercatrici nella condizione di dover affrontare individualmente le difficoltà imposte dalla pandemia, secondo la logica competitiva che sempre più informa la ricerca;
— intervenire sulle condizioni che obbligano studentesse e studenti alla didattica a distanza perché non hanno i mezzi per pagarsi quella in presenza. Come docenti, finita l’emergenza, non accetteremo di continuare con la DAD (anche in forma “mista”) se questa diventerà solo un altro mezzo per aumentare i profitti dell’università-azienda, invece di risolvere i problemi strutturali che impediscono la frequenza a migliaia di studentesse e studenti. Innovativa è per noi quella didattica che, pur integrando sussidi digitali, non ne resta schiava, ma permette di fare della formazione un’esperienza di cooperazione ricca e condivisa.
Con queste rivendicazioni intendiamo opporci sin da subito a un’Università che riproduce le disuguaglianze che la pandemia non ha generato, ma inasprisce. Intendiamo opporci all’asservimento della ricerca al mercato. Intendiamo dire no all’università-piattaforma riconoscendo l’ampiezza della posta in gioco che abbiamo davanti, che non può essere affrontata isolando le istanze delle singole categorie che operano nell’università. Anche per questo, mentre ci mobilitiamo a Bologna, rivolgiamo questo appello anche a chi insegna, fa ricerca e studia in ogni ateneo d’Italia. La partita del Recovery Fund per l’istruzione e la ricerca non può essere decisa dai manager del governo, ma deve diventare uno spazio di possibilità per rimettere in discussione in profondità l’università. Per incidere sui processi in atto dobbiamo rendere evidente che non siamo disponibili ad accettarli e metterli in pratica.
Proponiamo di costruire una giornata di agitazione universitaria nel secondo semestre dell’anno accademico 2020/2021 e invitiamo tutte le figure dell’università a mettersi in gioco insieme a noi. A Bologna, la competizione elettorale per il rettorato offre l’occasione per dare visibilità alla presa di parola che autonomamente stiamo costruendo. Dobbiamo agire insieme come cervello collettivo capace di intervenire efficacemente nella ristrutturazione dell’università e della società post-pandemica.
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